Osvaldo

Osvaldo era il fratello scapolo di Anna G., la nostra padrona di casa. 

Ci eravamo appena trasferiti a Santa Marinella e quella di Anna è stata la prima casa in cui abbiamo abitato. Era l’estate dei miei 6 anni, in cui presi gli orecchioni, e ricordo le giornate di delirio con la febbre a 40 in un letto posto in una verandina dell’appartamento. Un giovedì mattina* mamma tornò dal mercato con una macchina fotografica giocattolo, di quelle che guardi dentro al mirino e vedi immagini di personaggi dei fumetti, o forse di quelle che si aprono e l’immagine la vedi da una finestrella… non so, non ricordo bene. Ricordo però che litigai con mia sorella, che era andata al mercato con mamma invece di restare a farmi compagnia.

Erano tutti contenti per i miei orecchioni perché se li avessi preso da adulto sarebbero stati pericolosi, così dicevano.

Era l’estate prima di cominciare le elementari, nonché l’estate in cui vincemmo i mondiali e mi diedero da sventolare alle auto che passavano sull’Aurelia tre magliette annodate tra loro, una verde una bianca e una rossa, nonché l’estate in cui papà organizzò una sua mostra personale di pittura nel cortile pavimentato dell’appartamento, dalle pareti alte e bianche, da cui fece pendere catenelle d’acciaio a cui aveva attaccato la sua selezione di quadri. 

Osvaldo ogni tanto passava a trovarci, e io che ero un bambino affettuoso con tutti gli andavo incontro e lo abbracciavo come se fosse uno zio. Forse veniva a scambiare due chiacchiere, o forse a ritirare l’affitto per la sorella, proprio non saprei dire. Fatto sta che non era raro che si fermasse a mangiare con noi, spesso su insistenze di mamma e papà, che erano generalmente molto ospitali.

Non so cosa facesse nella vita, dove vivesse, quanti anni avesse (erano tutti vecchi per me). Non ricordo una singola parola che pronunciò in mia presenza, né il suo volto. Ricordo che vestiva spesso in giacca chiara (beige?) di lino e camicia, che facevano a gara a chi fosse più gualcita, rese solo lievemente più presentabili dalla tensione sui tessuti esercitata da una pancia prominente. Per portamento, figura e anche a causa del viso pacioccone – di cui non ricordo un singolo lineamento, sia chiaro – lo associai a Poldo di Braccio di Ferro credo già allora, e oggi non riesco a ricordarlo altrimenti che così.

L’unico ricordo nitido che ho di lui è un gesto che compiva a ogni pasto.

Ogni qualche boccone di pietanza, staccava con le dita un pezzetto di pane, se lo passava attorno alle labbra unte di residui di cibo, meticolosamente, con gesti circolari sapienti, simili a qualcuno che mette il rossetto, e poi lo mangiava.

Come dire… si autoscarpettava.

Sul finire dell’estate fummo ospitati da Anna e Osvaldo nella loro casa di Terni. Andammo a pescare trote in un laghetto artificiale e la prima notte pisciai il letto, tant’è che la seconda notte misero un’incerata sopra al materasso. Non ricordo molto altro del breve soggiorno.

Poi i rapporti improvvisamente si incrinarono, probabilmente smettemmo di pagare l’affitto, alla fine prima o poi lo facevamo sempre, non per indole criminale intendiamoci, è che proprio non avevamo soldi, e cambiavamo casa.

Oggi mi chiedo se è meglio cadere nell’oblio o essere ricordato per sempre e solamente come l’uomo che si autoscarpetta. 

* Il mercato a Santa Marinella era, è e sempre sarà il giovedì mattina, per questo lo so.

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